L’elfo Gildor dice a Frodo: “È bello sentir frasi dell’Antica Lingua sulle labbra di altri viandanti in giro per il mondo” (1). Una delle pochissime, forse l’unica “preghiera” nel Signore degli Anelli è in elfico: “Gilthoniel A Elbereth! [Salve Stella del Vespro!]“(2).
Qui incontriamo il concetto di lingua sacra. La lingua sacra può essere concepita come mezzo per esprimere e quindi partecipare ad un “mistero”, cioè ad una azione che trascende l’agire comune, banale, “profano”; oppure come strumento di una azione magica. Da una parte espressione di fede, dall’altra di tecnica e di potere. Cfr. l’episodio degli esorcisti ambulanti ebrei (i figli di Sceva) raccontato nel capitolo 19 degli Atti degli Apostoli, dove il santo nome di Gesù, che comprende l’ineffabile nome di Dio accanto al termine “salva”, è usato come talismano per scacciare gli spiriti, quindi senza fede.
Il Cristianesimo non dispone propriamente di una lingua sacra. In ciò si differenzia dal Giudaismo, dall’Islam e dall’Induismo. Le parole di Gesù sono tradotte in greco nel testo canonico del Nuovo Testamento e anche l’Antico Testamento è citato nella traduzione dei LXX, il cui valore e il cui significato per il Cristianesimo è difficilmente sopravvalutabile.
Ciò non toglie che anche il Cristianesimo conosca delle “antiche lingue”: le lingue liturgiche. Le grandi tradizioni apostoliche dell’antichità cristiana si cristallizzano attorno a delle lingue liturgiche e alla lingua in cui è tradotta la Bibbia.
Tradizione Antiochena: siriaco (aramaico), la lingua della traduzione detta Peshitta. A questa tradizione appartengono le liturgie siro-occidentale e siro-orientale (detta anche “assira” o “caldea”), che – in India – è divenuta la liturgia siro-malabarese.
Tradizione Bizantina: greco, la lingua della traduzione dei LXX. A questa tradizione appartengono le liturgie di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo.
Tradizione Alessandrina: copto. Il copto deriva dall’antica lingua degli egiziani e si divide in “dialetti”: bohirico e sahidico. In questa lingua è celebrata la liturgia di S. Marco, detta anche – appunto – liturgia “copta”. Da questa liturgia deriva la liturgia etiopica, celebrata nell’etiopico antico, il gheez. In gheez abbiamo anche una traduzione della Bibbia, nel cui canone sono inclusi anche diversi apocrifi che ci sono giunti solo attraverso questa traduzione.
Tradizione Romana, a cui corrisponde ovviamente il latino con la traduzione Vetus Latina e la più nota Vulgata. In questa lingua sono (o furono) celebrate venerabili liturgie: romana, ambrosiana, celtica, gallicana, visigotico-mozarabica.
La prassi della Chiesa rispetto alle “antiche lingue” nelle varie tradizioni è stata diversa. La Chiesa latina ha mantenuto il latino in modo pressoché esclusivo dai tempi del pontificato di S. Damaso (366-384) fino al concilio Vaticano II. La Chiesa bizantina ha sempre ammesso la possibilità di traduzioni totali o parziali. Sono così nate le liturgie bizantino-slava, bizantino-rumena, ecc.
Le Chiese orientali hanno ammesso – nel tempo – traduzioni parziali. Sia i copti, per es., che i Maroniti, passano alternativamente dall’arabo alla lingua liturgica copta o siriaca.
Si pone qui il non facile problema della traduzione. Che cosa vuol dire tradurre? Il greco hermeneuô significa sia interpretare che tradurre. Come il latino interpretari. Tradurre è – in ultima analisi – un dispositivo linguistico finalizzato a “far comprendere”. Ma appunto, “che cosa far comprendere”?
Si tratta di un mistero: questo è ciò che deve essere capito. Ma non è contraddittorio “capire il mistero”? Qui sono indispensabili alcune premesse. Innanzitutto il mistero della rivelazione biblica non è propriamente una “cosa”, ma una azione. Un’ azione la si capisce propriamente se – almeno in qualche modo – vi si partecipa. Non dobbiamo poi intendere il mistero come ciò in cui “non c’è niente da capire”, ma esattamente come il contrario: “ciò in cui vi è troppo da capire”. Non quindi mistero come “buco nero”, come somma di oscurità, ma come eccesso di luce. Il buio è – secondo l’efficace metafora usata da Aristotele – l’effetto che fa la luce del sole sull’occhio della “nottola” cioè l’animale notturno, il pipistrello o la civetta…
Davanti all’effetto di buio del mistero si rimane stupiti e quindi silenziosi. Myô in greco vuol dire “tacere” (è un verbo che sprime bene lo sforzo di due labbra che premono l’una contro l’altra) e di lì viene il termine mysterion.
Si tratta quindi di un mistero, ma di un mistero da capire almeno un po’, perché bisogna parteciparvi. Anche qui sarebbe opportuna una distinzione tra capire (o sapere) e comprendere, che non sono affatto la stessa cosa…
A questo proposito abbiamo il caso limite della Chiesa etiopica dove il gheez ormai non è più capito neppure dal sacerdote. Ore ed ore a pregare e cantare in una lingua incomprensibile… Non può costituire certo un modello da imitare, induce però a riflettere sui limiti del dispositivo “traduzione”. Una Chiesa ha continuato a mantenere viva la sua tradizione di fede praticando la liturgia in una lingua sconosciuta e d’altra parte è illusorio pensare che ogni problema di partecipazione sia magicamente risolto mediante una semplice traduzione linguistica… Si capisce tutto! Ma che cosa si capisce?
Una affermazione può quindi e deve essere fatta in tutta sicurezza: la Chiesa in tutte le sue tradizioni ammette come plausibile pregare in una lingua che non tutti conoscono. La lingua “antica” e sconosciuta diventa cioè un simbolo liturgico. Un “oggetto” liturgico che si affianca agli altri: altare, vesti, vasi, ecc. Come la traduzione è un dispositivo al servizio della comprensione, la lingua un po’ “sconosciuta” diventa un dispositivo al servizio del mistero.
Naturalmente – posto la natura del mistero, che abbiamo cercato di lumeggiare – ci dobbiamo chiedere fino a che punto una lingua può essere “sconosciuta” per servire alla bisogna. Una lingua assolutamente sconosciuta rischia di assumere la funzione dell’abracadabra delle favole o del sala gadula mencigabula, bibidi bobidi bù dei film di Walt Disney…
Il mistero si profila nel “chiaroscuro” della fede. Il problema della lingua liturgica va quindi visto almeno in una duplice prospettiva: una lingua antica, dal sapore “arcano”, ma non “astruso”, che sia quindi ancora uno strumento comunicante.
Possiamo allora valutare serenamente i pregi e i difetti di una lingua liturgica diversa da quella corrente.
Tra i pregi dobbiamo certamente ascrivere il collegamento che essa assicura con le radici proprie di una data tradizione liturgica, che è sempre anche tradizione teologica e spirituale. Si vive così in una comunione che è insieme diacronica e sincronica. Ricordo ancora con emozione il giorno che – durante una lunga giornata di confessioni all’aperto (si era nel 1987) accanto alla chiesa di Međugorje – mi si avvicinň un anziano signore dicendomi: “Ego sum sacerdos hungaricus, volo confiteri…”.
Una lingua “antica”, quindi non più correntemente parlata, è sottratta all’inevitabile mobilità della vita e garantisce quindi una certa fissità del linguaggio. Una fissità che non guasta quando l’argomento riguarda ciò che è eterno… “Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,18).
Un’antica lingua conserva dunque una connaturale simpatia – sintonia con il mistero.
Tra gli inconvenienti dobbiamo ascrivere soprattutto la pratica scomparsa del latino dai programmi scolastici. Perché una lingua liturgica “funzioni” non è indispensabile che tutti la capiscano, ma che qualcuno la capisca sì…
Note:
(1) John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli. Trilogia, edizione italiana a c. di Quirino Principe – introduzione di Elémire Zolla, Bompiani, Milano 2000, p. 124.
(2) Ibid., p. 879.
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